Altro reperto, delle decine di migliaia di foto scattate in questi anni… Ricordo che questo grammofono era in un ristorante romagnolo, dove campeggiavano, in ogni angolo lasciato libero, grammofoni, vecchie radio, televisori ancora con l’occhio magico, tutti rigorosamente in mobili massicci d’epoca. Perchè questo tema fotografico? Perchè mi rendo conto che visualizza l’idea di comunicazione/condivisione/amplificazione di un blog… Il disco sono le mille idee che passano per la testa scritte/incise, la puntina è il blog scritto e la tromba è il web, dove si possono leggere/ascoltare. Poi se il disco non piace si cambia… Sono giornate strane, forse perchè quando si lavora in orari inconsueti, diventa tutto altrettanto inconsueto e anche le cose che normalmente “passano”, si diventa meno disponibili ad accettarle. Paradossalmente altre, decisamente più strane diventano normali. Poi la comunicazione intensiva di questi tempi dove ti viene detto e scritto tutto e il suo contrario, ti abitua a filtrare di meno le cose, così ti capita di digerire l’indigeribile e poi di fare le pulci a cose minime. Insomma è tutto un “rebelòtt” (dialetto lombardo da termine francese: confusione, trambusto). E questo rebelòtt nel grammofono del Web si moltiplica senza speranza… Perchè nonostante i programmatori e gli smanettoni di professione, non è ancora stato trovato l’algoritmo della verità e spesso vengono passate per vere autentiche bufale. Se poi sommiamo a questo che l’educazione, familiare e scolastica, è peggiorata anche da noi dove c’era prima una maggiore abitudine al ragionamento e alla critica, le cose diventano ancora più difficoltose. La diminuzione di regole e “paletti” se prima ha aumentato le capacità creative di molti, ne ha tolto anche i limiti e la capacità di rispettare il prossimo. Da qui i leoni da tastiera impazzano, nascosti dietro un anonimato preoccupante.
Come vedete oggi si salta di palo in frasca, idee sparse e ben mischiate… Non vi preoccupate, poi passa…
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ALDì
Nel 1990 Fabio Concato pubblicò una canzone dedicata a suo papà, “Gigi” cioè Gianluigi Piccaluga, ottimo musicista e appassionato divulgatore di jazz e musica brasiliana: vero ispiratore per suo figlio. Canzone che inevitabilmente mi provoca quello che in Lombardia viene chiamato “magone”, ovvero quell’emozione che ti porta molto vicino al pianto. Un pò per la capacità che Concato ha nello smuovere le emozioni con la sua musica e la sua poesia e un pò perchè io , il mio papà l’ho perso quando avevo 22 anni. Un’età nella quale cominci a capire che i genitori non sono un ostacolo alle pretese di ex-adolescente, ma che le intenzioni e le cose che ti dicono e fanno, sono per prepararti al “dopo”.
Mio padre , Aldo Fercioni, figlio di uno dei più creativi e bravi sarti italiani dagli anni ’20 ai ’60 Giovanni Tranquillo Fercioni, mi ha insegnato cose semplici: ad essere una persona onesta, gentile, a saper trovare nelle cose il lato giusto e spesso, in quelle più serie saper trovare il lato buffo. Quello c’è sempre, anzi: più le cose sono apparentemente serie e più, se guardi bene, c’è un lato che ti fa sorridere.
Mia mamma lo conobbe in tempo di guerra, lui ricoverato in un ospedale militare in seguito alla ritirata in Russia e lei infermiera. Lo conobbe mentre, circondato da altre infermiere, stava organizzando uno spettacolo e stava assegnando le parti… Ad essere sincero mio papà non era un Adone, statura media, fisico da atleta però, formato dall’atletica e dalla boxe che aveva praticato ai tempi dell’università, ma una comunicativa che oltrepassava questo limite e te lo faceva ascoltare sempre, spesso a bocca aperta…
Forse, se fosse rimasto ancora un pò con noi, molte cose sarebbero cambiate o forse no, ma sarebbe comunque stato bello…
nota le note…
Intanto una annotazione per tutti i lettori di questo blog: sto cercando di rispondere a tutti e un pò alla volta spero di riuscirci…
Un tempo, quando giocavo solo con vari siti di cui non ho mai capito l’impatto, citavo il “club dei 23” di Guareschiana memoria: quello che lui, un pò giocando e un pò credendoci indicava come i suoi lettori. Calcolando che ancora adesso, dopo decenni dalla sua scomparsa, è lo scrittore italiano più tradotto al mondo, forse sono un pò di più. Adesso mi trovo ad avere, non so in base a quale innesco esplosivo, continue iscrizioni… Strana tempora currunt… Come è facile vedere, scorrendo i vari post di questi mesi, non c’è un tema particolare. Ho guardato qualche blog in giro e, a parte gli “influencer” (io lo sono solo quando ho la febbre e la tosse..), gli argomenti sono mirati, spesso legati alla professione di chi li scrive e i temi trattati anche. Questo blog è come me: tante idee, neanche messe in fila, scritte a seconda dell’umore e dei suggerimenti del giorno. Neanche l’attualità mi sfiora, se non quando scrivo di basket: il resto è storia, preistoria, osservazioni, ragionamenti ecc. il tutto shakerato e messo lì, un pò alla rinfusa.
Oggi, a parte il poco riposo dovuto all a fine dell’ultimo studio finito all’una di notte, con relativo rimbambimento, la giornata è partita bene, con una passeggiata rilassante con Mou in versione “son tornato cucciolo”, quindi con giochi insieme ad altri cani, disponibile e bravo, durata i soliti cinque chilometri circa.
Poi adesso al computer e poi, dopo pranzo, altra giornata/nottata di lavoro… Particolari osservazioni ? A parte la cosa buffa di un cantiere aperto di fianco ad una casa di riposo per anziani, non molto altro.
Come vedete ci sono post che raccontano la routine quotidiana: club dei 2,3, arrivo…
IL DOTT. CANIGATTI…. (1)
Non è difficile da intuire il mio amore assoluto per cani e gatti, anche nei lunghi periodi durante i quali non ne ho potuti avere… Dai cagnoni che aveva mio nonno Giovanni, alle bassottine a pelo lungo che avevano gli zii Ruggero e Paola, Rebecca e poi Carlotta, al Beagle di mio fratello per arrivare alla mia Penny, seguita da Tea e 26 anni dopo da Mou. Non mi sto dimenticando dei gatti, ci mancherebbe: quando arrivò la Tea nell’80 , pochi giorni dopo la morte della Penny, quasi contemporaneamente comparve (nel vero senso della parola) la prima Titta, silvestrina bianca e nera. Scrivo “comparve” perchè fu un’apparizione nel vero senso della parola…
In quei giorni lavoravo presso Radio Play a Lissone e mentre stavo andando al lavoro durante un giorno di pioggia, nei pressi della radio, fermo ad un semaforo sento una specie di pigolio sommesso. Abbasso gli occhi verso una siepe da dove veniva il suono e vedo il classico riflesso di due minuscoli cristallini. Mi fermo con la macchina, scendo, mi chino verso la siepe ed ecco che mi viene incontro questo topino di neanche due mesi. Da quel momento, per molti anni fu la compagnia della mia famiglia. I primi anni , insieme alla Tea erano una associazione a delinquere: giocando ne facevano di tutti i colori. Un esempio? Mia mamma aveva una vecchia specchiera d’epoca dove, nel ripiano basso e stretto teneva i bigodini per la messa in piega in un sacchetto, in fondo per evitare che il cane ci potesse giocare. Cosa facevano “attenti a quei due”? La Titta (che prima di scoprire che era una femminuccia avevamo battezzato Teo…) si infilava nello spazio interno del ripiano, spingeva con le zampine fuori il sacchetto, e la Tea, da bravo cucciolo li masticava fino renderli buoni come arte moderna… Poi c’erano i momenti in cui Tea voleva convincere la Titta a giocare quando questa non voleva e allora vedevi che, modello mamma, la prendeva o per il coppino o addirittura con tutta la testa in bocca e se la portava in giro fino a quando il gatto si arrendeva e cominciava a giocare… (1-continua)
Nomen omen…
Non voglio tediare chi non è interessato riguardo a storie di famiglia… per quello c’è già il sito www.fercioni.com.
Invece la mia intenzione è quella ricercare di spiegare cosa può significare il portarsi dietro un cognome “pesante” o che in passato lo è stato. Senza entrare nel merito, il mio lo è stato grazie a mio nonno e ai miei genitori e zii.
Questo , per lo meno è una mia sensazione, ha condizionato una buona parte della mia vita e , almeno un pò, lo fa tuttora. Lasciando da parte l’orgoglio di aver avuto nel mio passato persone che hanno fatto cose importanti, l’eredità mentale è quella di dover essere e rimanere al loro livello. Cioè di fare qualcosa di significativo, qualcosa che nel futuro faccia dire a mia figlia o a persone vicine di essere stati orgogliosi di me.
Il lato negativo è che poi diventa una catena quasi inevitabile e non so se questo sia giusto. Il rischio è quello di far diventare tutto ciò un peso o un aratro, una cosa che invece di stimolare possa poi frenare la propria strada normale.
Intendiamoci, non sono poi sicuro che questo magari non abbia influito, quando si è trattato di scegliere un mestiere, tra alcuni forse più remunerativi e anonimi e altri potenzialmente più evidenti ma magari meno “interessanti”. Tutto sommato spero di aver fatto le mie scelte nella vita, lavorativa e non, in base a quello che mi interessava fare di più e non quello che mi avrebbe fatto guadagnare maggiormente. Qui ci saranno commenti sicuramente ironici o negativi. Spero che qualcuno che capisca la cosa ci sia. Faccio ancora il regista televisivo da trent’anni e da più di quaranta considerando precedentemente la radio e la televisione con altre mansioni. Avrei potuto continuare a fare il copy o il grafico o finire architettura e lavorare su altri tipi di idee. Invece sono ancora qui, con uno stipendio come tanti che lavorano come dipendenti, sicuramente non male ma senza essermi arrampicato a tutti i costi più in alto. Fondamentalmente non mi interessava farlo: fino ad un paio d’anni fa ho lavorato su cose che mi piaceva fare, adesso per contingenze differenti magari un pò meno… Ma come si usa dire :”… tirare la lima e lavorare in fonderia, sono un’altra cosa…”
quasi come in radio…
Non so come vengano tradotti questi post, sicuramente o avete degli ottimi strumenti per il translate o c’è più gente di quanto pensi che conosce l’italiano. Perchè io utilizzo spesso forme gergali, giochi di parole e fraseologie spesso difficili nella stessa lingua italiana. Mah! Un giorno lo capirò, per adesso ringrazio tutti quelli che scrivono e commentano sulla base di quello che racconto. Ancora una volta un riferimento al mio vecchio amore, la radio, è inevitabile.
Anche allora , nell’interscambio di argomenti (allora mediante telefonate o posta non certo elettronica…) ogni tanto avevo la sensazione di essere frainteso, così come spesso mischiavo parole creandone di nuove…
La vera forza della radio rispetto alla tv è propio quello di generare immagini proprie nella singola immaginazione di chi ascolta, sulla base di quello che dici. Cosa che la televisione impone, lasciando poco spazio all’immaginazione.
Il web scritto (come i libri e le pubblicazioni in generale) lascia spazio all’immaginazione: al massimo ad instradare la fantasia ci può essere un’immagine, una foto, una clip. Ma l’importante è quello che viene letto…
I can’t complain…. non mi posso lamentare…
Nel passaggio da sito tradizionale a blog, mi aspettavo che il trend rimanesse lo stesso: amici e “semplici conoscenti…” (Cit. fumetto Sturmtruppen) e poco altro. Invece partecipano molte persone, mischiate a chi fa e-commerce (quelli non mancano mai), con commenti di ogni genere, segno di eterogeneità nella provenienza e tipologia. Insomma, un pò di tutto…
Non mi dispiace la cosa , e mi ricorda un poco gli ascoltatori di quando condividevo idee e musica, invece che sul web in radio. La cosa era ancora più semplice perchè alla mattina presto ( quella era la collocazione dei miei programmi) eravamo tutti “scollegati”, io e gli ascoltatori. A quell’ora non hai ancora alzato le difese della normalità e si dicevano tante cose che più tardi potevano essere sentite e ascoltate in modo diverso. Il pubblico andava da chi si alzava presto per lavoro o per impegni familiari a chi finiva lavori notturni e quindi più disponibili ad ascoltare ogni genere di cosa trattata. E la cosa bella era che, in tempi in cui la condivisione non era ancora di moda ( il web negli anni 70-80 doveva ancora nascere) la radio privata era l’unico modo di interagire con la gente e funzionava.
Ad essere ancora più sincero, se le radio non si fossero trasformate nell’ennesimo modo di fare business, la tentazione di rimettermi dietro un microfono, l’ho avuta più di una volta.
C’è più immediatezza, è meno macchinoso dello stare dietro una tastiera, stante il fatto che i sistemi di dettatura vocale difficilmente colgono i giochi di parole: i calembours o come li chiamavo io “i Camembert”. Anche gli ascoltatori a volte, ma poi capiscono e magari sorridono… Tanto, se non fai radio in tv (altra contraddizione che capisco poco) chi si accorge che c’è un sessantenne dall’altro lato delle casse acustiche?
A proposito di quelli che parlano facendosi guardare in tv, faccio un invito: andatevi a guardare ” Un peu d’amour, d’amitiè et beaucaup de musique”, condotta da Jocelyn e Sophie su Tele Montecarlo dal ’74 al 1980 oltre che da Awanagana e Liliana. Quella è la trasmissione che ha creato il format e, secondo me rimane insuperata, per leggerezza e comunicativa.
Ma non lamentiamoci, il peggio è un’altra cosa…
QUI DENTRO (3)
In realtà bisognerebbe, più che di queste tre camere, fare un piano sequenza di tutto il palazzo, comprese cantine, scale, cortili, abbaini e piccoli locali dislocati un pò ovunque nella casa. Questo è stato nel vero senso della parola la mia casa, il mio parco giochi, il mio mondo quando tornavo da scuola. Ero l’unico bambino nell’arco dell’isolato, di questo ero sicuro: non c’erano molte persone già allora che abitavano in Via Montenapoleone (anche se sicuramente più di adesso). Quindi per non annoiarmi dovevo dare fondo alla fantasia e sfruttare questo micro-macro mondo che avevo a disposizione.
E che mondo: La casa era composta da quattro ali principali e tre secondarie: quella più antica era quella nella fotografia ed era del XIV° secolo, un ex convento con relative segrete dove, piccolo esploratore con pila, mi inventavo avventure in mezzo a porte di legno ammuffito, vecchi bauli e oggetti che adesso, in tempo di antiquariato/modernariato farebbero la felicità di molte persone… Originariamente per accedere a casa nostra c’era una sola scala che si vedeva essere stata costruita in due tempi, fino al primo piano con una larghezza e un’altezza differente dei gradini (si lo so, si chiamano alzata e pedata…) mentre dal primo al secondo, più recente in un neoclassico del Canova in marmo più pregiato, si arrivava al nostro ingresso.
La caratteristica peculiare di quella scala era che non finiva al nostro piano, ma era coronata da una cupola che, ricordo nella mia infanzia, essere grigia, fino al momento in cui venne “ripulita” da quel grigio scoprendo degli affreschi sopravvissuti ai bombardamenti dell’ultima guerra.
Un altro ricordo d’infanzia era l’atrio delle scale con un soffitto a cassettoni che precedeva quelle scale che facevo centinaia di volte di corsa, su e giù, spessissimo. La seconda scala, guardando la facciata della casa, sul lato sinistro era più recente e apparteneva al corpo dell’ala sinistra del palazzo. Non era originariamente collegata con la casa: questo avvenne successivamente con l’inserimento di un “modernissimo” ascensore e con l’eliminazione di un bagno trasformato poi nella scala di collegamento con il pianerottolo dell’ascensore.
Il cortile con colonne neoclassicheggianti veniva usato come posto auto per noi pochi inquilini del palazzo e, sulla sinistra c’era un ingresso per una corte più piccola, appartenente al corpo di una delle due ali settecentesche dove lì normalmente finivano le biciclette…
In tutto e per tutto un palazzo come tanti a Milano e in Italia: la differenza era dove si trovava… e sopratutto la differenza era che ci ero nato e cresciuto, era la mia casa… (continua-3)
Non so… non e’ facile
Esci con cagnone appresso, in macchina per fare qualche commissione a pochi chilometri di distanza e immediatamente ti ritrovi immobilizzato nel traffico. Quaranta minuti ad andare e altrettanti a tornare per un totale di sei chilometri sei… Mou in visibile disagio nonostante i finestrini aperti e il sottoscritto che sacramenta il sacramentabile. Poi si torna a casa dopo un tentativo di passeggiata defaticante per il quattro zampe, tentativo finito male perchè dopo aver fatto l’indispensabile (leggi solido e liquido…) non c’è verso di rimanere in giro… Messomi al computer scopro che il casino che c’è sulla strada è in conseguenza di un poveraccio morto investito dal treno in prossimità di Arcore. Non si sanno ancora le dinamiche ma tutto è bloccato. Quindi alè tutti i pendolari che si appoggiavano alla stazione del paese a spostarsi in quelle vicine: Villasanta e Monza con relativi ingolfamenti di parcheggi e di traffico. E qui scattano i sensi di colpa, perché mentre si era tutti assieme in coda sulle strade i pensieri non erano certo positivi e di comprensione… Da qui un tentativo di revisione del modo di affrontare le cose: uno psicanalista di mia conoscenza mi diceva che le emozioni vanno scaricate e non trattenute. Il mio senso di colpa nei confronti del poveretto che è finito sotto il treno invece mi dice il contrario. E’ vero che le reazioni sono spesso figlie dell’immediato e altrettanto spesso non conosciamo le cause prima di partire in quarta, però .. Non so… non è facile.
PIù IN ALTO…
Le piccole grandi cose… Una parola gentile di qualcuno, uno sguardo complice del tuo cane, il sentire vicina una persona cara. Tutte cose che a piccole dosi ti rimettono in pista e (un pò) in pace con il mondo, e soprattutto bilanciano l’enormità di altre cose che normalmente non solo non ti mettono di buon umore ma ti ribaltano l’animo. In realtà basta poco, soprattutto deve dipendere da noi: come in tutte le cose deve partire dalla disponibilità d’animo, dalla voglia di farlo. Un pò come per gli stati di esaurimento, stress, depressione: i medicinali servono per spezzare “la catena” della negatività, ma poi il resto deve venire da dentro. Chi l’ha vissuto, lo sa: l’ipocondria, le crisi di panico e simili, si vincono da dentro. Così come siamo noi stessi ad accumulare i sintomi, dobbiamo essere noi a tirarcene fuori. Se sono problemi reali si affrontano come quelli immaginari: anzi, una volta individuati, secondo me, sono proprio questi ultimi ad essere più facilmente risolti. Perchè il nemico lo conosciamo benissimo, come lui conosce noi: siamo noi stessi, quindi lo possiamo fregare… Mi sto rendendo conto di scrivere come parlavo quando ero davanti ad un microfono in radio : di palo in frasca saltabeccando tra un argomento e l’altro. Forse è per quello che la radio è il periodo che tuttora rimpiango maggiormente. Anche adesso parlo ad un microfono… però rompo le scatole solo a chi parlo nell’intercom: cameraman, rvm, assistenti, audio e chi c’è in quel momento… Poveri loro…